Un’amica cosciente dell’ingiustizia del velamento si era ritrovata senza argomenti in una discussione con delle compagne. Come sempre, le erano cascate addosso accusazioni di ogni tipo. Mi aveva chiesto cosa rispondere per la prossima volta che avrebbe affrontato il tema. All’epoca scrivevo la mia tesi sul velo e le ho scritto questo testo, facendo della sua rabbia la mia, d’un fiato. Conoscendo il contesto della sua discussione, ho collegato la questione del velo alla moda — settore con mani da donna, genio da uomo, tanto per cambiare.
Scrittura: 24 Novembre 2018.
Revisione sulla forma: Gennaio 2021.

Si possono rintracciare i primi usi del velo fra gli Assiri a migliaia d’anni prima di Cristo. La legislazione dell’epoca è emblematica: solo le donne sposate possono portare il velo; le schiave e le donne in prostituzione no. Si intuisce dunque già da quel periodo che il velo non serve solo a distinguere le donne dagli uomini ma anche le donne tra di noi. Nel suo studio focalizzato sul centro e centro nord dell’odierna Italia, Maria Giuseppina Muzzarelli osserva le stesse usanze. Il velo serve a distinguere ebree da cattoliche, “meretrici” da donne “perbene”, ricche da povere, sposate da non, e soprattutto maschi da femmine. Per quest’ultimo punto si vedano per esempio le leggi che proibiscono l’uso di berretti o cappucci alle donne per evitare che vengano confuse con uomini. Il velo, capo riservato alle donne, non è un vestito qualsiasi.
Questi significati e queste prassi si sono tramandati nei secoli. Contrariamente ad altri capi sessisti come i tacchi, le gonne, le parrucche e pratiche cosmetiche (trucco e depilazione), il velo è sempre stato portato dalle donne. Depilazione e trucco hanno origini mediorientali e sia donne che uomini adottano queste tecniche cosmetiche. Le gonne e i vestiti sono stati portati in passato dagli uomini (basta pensare alle toghe) e tuttora esponenti di religioni maschili (le tre col profeta col pisello ma anche buddismo tipo Dalai Lama (ma è possibile che non ci siano donne in Tibet?!) ed altre) portano solamente vestiti. Parrucche e tacchi erano portati dagli uomini in vari luoghi e tempi: ispirati dagli uomini persiani del 500, gli aristocratici europei (dapprima unicamente maschi e poi pian piano donne) si mettono a portare il tacco nel 600 e 700 per mettere in avanti il proprio statuto sociale. Eppure, il velo rimane proprietà delle donne. Ci sarà stato il turbante, il fez, il cappello per gli uomini, ma non hanno lo scopo di coprire — unicamente uno scopo simbolico: il capo è il modo ideale per veicolare significati, il viso essendo il luogo dell’identificazione. Gli scettici parleranno dei veli dei beduini o dei passamontagna degli uomini: questi capi maschili svolgono un ruolo funzionale prima di simbolico. Il velo non ha nessuna funzione pratica che non possa essere svolta da un altro capo (mettiti un cappello se hai freddo d’inverno no?). In termini di praticità è assolutamente inutile.

Una prima lezione da trarre da questo riassunto è che ci vuole una grande cautela nell’utilizzo dei termini “orientale” ed “occidentale” che più spesso che non, non corrispondono a nessuna realtà storica né ideologica. Anche chi si oppone al velo fa l’errore di denunciarlo come l’equivalente orientale dell’oggettivazione occidentale di tacchi e trucchi. Siamo sicuri che il velo è orientale quando è solo dal concilio Vaticano II del 1962 che la Chiesa non tratta più dell’argomento del velo? A proposito, vorrei ricordare che, se vogliamo entrare nella questione teologica, la posizione cattolica sul velamento è chiara. Nella Lettera ai Corinzi, San Paolo spiega che dio è superiore all’uomo e che l’uomo è superiore alla donna: perciò le donne dovrebbero coprirsi per significare la propria subordinazione. Nell’islam la questione non è così chiara. La pratica è stata adottata col tempo. In ogni caso, è perché la pratica del velamento era ben insediata in Medio Oriente che le religioni monoteiste le hanno adottate, non il contrario. Bruno Nassim Aboudrar nel suo libro Come il velo è diventato musulmano propone l’interessante distinzione tra velo come simbolo di sottomissione delle donne nel cristianesimo e come strumento di sottomissione nell’islam. Di per sé il velo non è né religioso né culturale ma ideologico.

Inoltre, le varie pratiche citate qua sopra non sono mutualmente esclusive: quante donne velate con tacchi-trucchi vediamo in giro? Il velo non è opposto alle pericolose pratiche di femminilità (pericolose in quanto portatrici di valori di sottomissione) ma è in continuazione con esse: non è forse usato per mettersi in valore?
Altro punto, il tacco, un giorno lo porti l’altro no. Il velo devi portarlo ogni giorno della tua vita. Non puoi uscire di casa in trenta secondi.
Ancora un’altra osservazione: è sempre un uomo che dice alle donne di portare un velo. Certe cosiddette femministe si felicitano nel dire a tutte: io da donna non oserei mai dire ad un’altra cosa mettere. Brava. Ma sicuramente da donna, ho qualcosa da dire ai maschiacci che dicono alle donne cosa mettere, no? Funziona così: in uno spazio interamente femminile una donna che normalmente porta il velo non ha bisogno di portarlo[i]. Ma dal momento in cui entra un uomo deve assolutamente ricoprirsi. No uomo, no velo. Questo vale per le relazioni immediate. Da un punto di vista strutturale bisognerebbe chiedersi se senza patriarcato il velo sarebbe apparso. Forse la differenza tra il velo e altre pratiche di femminilità risiede in questo: ciò che rende le altre pratiche problematiche è la loro natura sessista, ma non sono nate per un sesso specificamente; mentre il velo non è solo sessista ma anche misogino. Il velo scaturisce da un odio per le donne che rende necessaria la nostra identificazione e gerarchizzazione (distinzione fra donne e uomini e fra donne come detto prima).
Da qui il mio ultimo punto: donne e bambine sono state ammazzate per non aver portato il velo. Nessuna lo è stata per non aver portato trucchi o parrucche. Di sicuro non sistematicamente. Al contrario, negli anni 90 in Algeria era sufficiente portare uno smalto per le unghie o gestire un istituto di bellezza per essere uccisa. Che dico negli anni 90? Succede in continuazione. Almeno 30 milioni di donne nel mondo sono costrette per legge a portare il velo[ii]. Rapidi paragoni con gonne minimizzano il problema.
L’argomento del portare il velo per segnalare modestia per le donne è poco soddisfacente. Innanzitutto perché mai dovremmo essere modeste? Una spiegazione è che essendo donne, impure e pericolose, dobbiamo scusarci per osare inoltrarci nello spazio pubblico dominio degli uomini. Poi, il capo non è un luogo qualsiasi. Se veramente fosse una questione di modestia, coprirsi i capelli non è necessariamente discreto. Muzzarelli narra appunto della moda dei balzi e altre strepitose decorazioni che facevano impazzire le autorità. La modestia assoluta in Europea occidentale di inizio millennio sarebbe jeans e sneakers. Marnia Lazreg sottolinea che il velo, posto strategicamente sulla testa costringe la visione, l’udito (le orecchie devono essere coperte), crea prurito e carenza in vitamina D per parlare unicamente degli effetti fisici. L’effetto psicologico (semmai è possibile separare i due) è devastante. Lazreg riporta un aneddoto della sua infanzia: era accorsa a casa per chiedere aiuto a sua madre contro un maschietto che la tormentava. La madre non avendo avuto il tempo di coprirsi il capo, non riesce a sormontare la soglia della porta e getta un bibelot sul bambino che invece atterra sulla testa di Marnia Lazreg. Ancora oggi Marnia Lazreg ne porta la cicatrice. Il velo in un certo senso ha l’effetto di un guinzaglio. L’altro effetto da tener conto è quello della vergogna. Come può una ragazza (perché ormai lo fanno pure mettere a bambine) crescere serenamente se viene ad interiorizzare che il suo corpo è pericoloso, eccitante in modo sproporzionato per gli uomini e che deve sempre coprirlo?
Da qui la mia osservazione finale. Il velo copre. Serve a nascondere. Si chiama velo e bisogna continuare a chiamarlo così. Mi rifiuto di usare la parola “hijab” perché da quel che capisco sarebbe tradotto con tenda, poi perché usando una parola “esotica” al posto di una locale, si pretende che la pratica del velo sia straniera redendo la sua critica molto più difficile poiché viene confluita col razzismo. Inoltre, “hijab” perpetua una generale arabizzazione dell’islam che è l’equivalente dell’uso del latino della Chiesa: rende tutta opposizione impossibile e facilita il proselitismo perché la popolazione locale non-araba non capisce niente. Comunque, si chiama velo perché intende nascondere. Eppure, nascondendo mette in evidenza. Cosa vuole nascondere? Che c’è una donna. Nascondendola segnala la sua presenza. Cosa vuole nascondere di questa donna? Che tu in quanto uomo non puoi andare a letto con lei. Ma a cosa ti fa pensare allora? Al sesso. Sesso femminile e sesso come coito. È la visione avanzata dall’irano-francese Chadortt Djavann che afferma che il velo è pornografico. E che dire dalla donna non velata? È una puttana. Ecco qua il legame tra prostituzione e velo. Sia la prostituzione che il velo servono a separare la donna privata non accessibile dalla donna pubblica accessibile a tutti. Ci incollano addosso etichette per non perdere di vista le loro proprietà (noi). Quest’ultimo aspetto si può osservare largamente nella haute couture contemporanea e nel culto generale delle marche. Se certi uomini usano il velo altri usano del proprio nome: il velo come segno di proprietà, la marca come marchio. Louis Vuitton, Valentino, Versace, D&G… È la tecnica delle mucche tatuate: sono tutti uomini che segnano noi donne col loro nome. L’esempio più eclatante di questo è il collant di Alexander Wang: è trasparente e c’è solo una scritta col suo nome, sembra veramente che sia un tatuaggio. La strategia marketing del velo è un sublime esempio del genio patriarcale: più donne sottomesse, più soldi, più gloria.



Un altro etichettamento che vorrebbe denunciare ma riproduce l’esistente.
Il viso come veicolo di messaggi : altri casi



Dalla lettura del sito Terre Incognite Magazine, diventa molto chiaro il desiderio di controllare la filiazione/l’affiliazione maschile delle donne IGP:
“Molte sono le leggende e i racconti diffusi attorno a questa tradizione, in realtà sembra che questo uso risalga al periodo medioevale quando, come in molti altri paesi feudali in Asia, era d’uso per le popolazioni Chin che i reali potessero sposare chiunque volessero in qualunque momento. Un principe di un paese confinante, poteva quindi presentarsi e prendere una ragazza in moglie per puro capriccio, senza alcun preavviso né per la ragazza né per la sua famiglia. Per le popolazioni Chin era difficile difendere le giovani ragazze da queste continue angherie, anche perché qualunque forma di ribellione sarebbe stata contrastata del potere dei reali con torture e punizioni. Dovettero quindi cercare una soluzione che consentisse loro di proteggere le ragazze, senza indurre le famiglie sovrane a ritorsioni. E fu così che i genitori Chin, nel tentativo di proteggere le loro figlie, iniziarono a tatuare il viso delle bambine. Il tatuaggio veniva disegnato sul volto delle ragazze tra gli 11 e i 15 anni e richiedeva almeno un giorno per completarlo. Col tempo questa tradizione che doveva rendere le donne indesiderabili, ha iniziato ad avere l’effetto opposto. I tatuaggi facciali completi sono diventati segni distintivi di bellezza per ogni donna Chin della vecchia generazione. Ogni area dello stato Chin possiede un modello di tatuaggio distinto ed è quindi solitamente possibile determinare da dove viene una donna dal disegno del tatuaggio sul suo viso.”
[i] Certamente le suore fanno eccezione ma non possono neanche loro togliersi il velo fra gli uomini.
[ii] Come sono arrivata a questo numero? Chiaramente, la mia è una stima molto vaga in mancanza (a mia conoscenza) di studi empirici sistematici. Solo in Iran e Arabia Saudita la legge sul velamento è molto chiara per questo la mia stima che corrisponde al numero di donne dai ventiquattro anni in su in questi due paesi è vaga in quanto bassa. La cartina del Pew Research Centre sulle legislazioni mondiali sull’abito religioso delle donne che include paesi come il Sudan, la Libia o l’Iraq mostra che questo numero è sicuramente molto più elevato. (Non è possibile fare la stessa computazione con la popolazione a partire dei dati del Pew Research Centre perché la legislazione descritta non è assoluta, dipende dal luogo e dalla circostanza).