Basta apparire o come diventare uno stereotipo

Yağmur Uygarkızı

Trova le differenze! 
A sinistra la prima influencer della storia, una donna, Paris Hilton. A destra, un suo fan, un uomo, Gigi Gorgeous [Gigi Stupendo]. [Fonte immagine]. 

“Basta apparire” assenna Lele Mora di fronte alle videocamere di Erik Gandini per il suo documentario Videocracy del 2009. Da quell’anno, sono venute fuori varie faccende coinvolgendo il manager del mondo dello spettacolo, indicando la sua vera attività — per chi l’ha visto nel documentario pavoneggiarsi in abiti immacolati in un olimpo di efebi non sorprende la condanna per favoreggiamento della prostituzione — senza mai intaccare la sua massima, anzi rafforzandola. “Basta apparire” è diventato il mantra della nostra epoca. 

La TV berlusconiana di quell’epoca è ad Instagram ciò che Playboy è alla pornografia contemporanea: una pallida versione, quasi da creare nostalgia tanto sembra oramai innocua ma fatalmente precorritrice del disastro che ci attendeva. Gli stereotipi servitici in scatolette, dalla TV catodica al Samsung flip phone, sono evasi dal loro mondo per invaderci. Geppetto fa Pinocchio, Pinocchio vuol diventare bambino; la bambina vuol diventare bambino e il bambino vuol diventare Pinocchi@.  

“Basta apparire” è la massima dell’ideologia che possiamo chiamare vagamente transgender che invita all’auto-assegnazione sessuale. Chiunque può essere del sesso che preferisce, basta farlo apparire. Certi uomini si avvalgono così di stereotipi banalmente sessisti per pretendersi donne: tacchi, parrucche, silicone nelle tette e voilà amore mio. 

Faccio deliberatamente la caricatura del pensiero queer nato dalle roccaforti universitarie statunitensi negli anni 90. Considerarla più seriamente sarebbe l’equivalente del conferire legittimità alle follie misogine della psicoanalisi. Più si dà credibilità al ciarlatanismo, più lo si installa durevolmente culturalmente. Basta vedere come è andata con il cattolicesimo. 

Mi piacerebbe darvi ragione se pensate avermi colta in flagrante delirio di malafede. Purtroppo basta guardare la folgorante carriera del modello Munroe Bergdorf, spesso messo in avanti da UN Women, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per le donne, e oggi ambasciatore dei diritti per le donne per l’UN Women Regno Unito. 

Per capire come siamo arrivate qui e perché il discorso transgender non è innocuo quanto pare appunto, partiamo dalla radice. Cos’è uno stereotipo, che ruolo hanno gli stereotipi sessuati e giocare con essi potrà mai aiutarci a liberarcene? 

La stereotipia e l’inversione della realtà 

Locandina per una campagna UN Women con un gioco di parole su stereotipi e ONU “UNStereotype”, ovvero de-stereotipo, che ha ironicamente per protagonista un uomo maniaco di stereotipi, Munroe Bergforf. (Fonte immagine).

La stereotipia è una tecnica di stampa sviluppata nel XVIII secolo. Il nome viene dallo stereotipo che è una solida lastra di metallo sulla quale vengono assemblate lettere e illustrazioni per essere indefinitamente riprodotte su carta.

Metaforicamente, uno stereotipo è una visione preconcetta e strasemplificata della realtà. Un sinonimo è cliché proprio perché lo stereotipo è un’immagine che esiste solo nella mente, lo scatto di un attimo che non può afferrare una realtà più complessa. 

Quando si tratta di stereotipi attribuiti ai sessi, essi agiscono come placche rigide che costringono la vita delle donne e delle ragazze, riducendoci a uno stampo prodotto in serie ­— come su Instagram.

Ma cosa succederebbe se la realtà fosse modellata in modo da corrispondere allo stereotipo? Allora gli stereotipi non sarebbero più immagini mentali, ma semplici osservazioni della realtà : fotografie e non più clichés. Questo è ciò che ci viene detto oggi, quando donne sempre più giovani – a volte persino adolescenti – ricorrono a ogni tipo di intervento chirurgico per adeguarsi agli stereotipi assegnati alle donne. È la storia delle sorelle di Cenerentola: una si taglia i mignoli per entrare nella scarpa minuscola, l’altra il tallone, ma solo Cenerentola può pretendere al premio maggiore in una società patriarcale, l’amore maschile. La donna giusta è quella che entra perfettamente nello stampo. In realtà, sappiamo tutte che è impossibile, ma ci nutriamo dell’illusione. 

Da Paris Hilton a Kim Kardashian
In termini di standard di bellezza, siamo passati da Paris Hilton, per la quale morire di fame era “sufficiente” per emulare il suo idolo, a Kim Kardashian, le cui proporzioni sono naturalmente impossibili da raggiungere. (Fonte immagine)

La mutilazione delle bambine e donne da uomini per attingere agli stereotipi da essi create rappresenta un’inversione totale, non solo perché è una situazione in cui è la realtà fisica che cerca di adeguarsi ad un’immagine, ma anche perché donne perfettamente sane vengono etichettate come malate solo perché non rientrano negli stereotipi – fatto già rilevato da Naomi Wolf nel 1991 in The Beauty Myth [Il mito della bellezza]. Invece di attaccare gli stereotipi, noi donne siamo attaccate. Gli stereotipi femminili sono presentati come immutabili, tanto da essere confusi con la femminilità stessa. Questo aspetto è ancora più evidente nella lingua italiana, dove non c’è più distinzione tra la femminilità intesa come essere donna e la femminilità intesa come glitter e trucco/stereotipo. Il significato neutro di “femminilità”, caratteristiche proprie di una donna, è stato totalmente perso.

Le ragazze che non vogliono essere associate a questi stereotipi (come biasimarle?) vengono presentate come se non volessero affatto essere donne. Sono invitate ad adottare i manierismi e acconciature tradizionalmente associate agli uomini. Nei casi di cambiamenti fisici che ci interessano qui, vengono indirizzate a “cliniche per l’identità di genere”, che non sono altro che cliniche per gli stereotipi sessuali. Medici poco scrupolosi mutilano felicemente seni, rimuovono uteri e prendono pezzetti di gambe per farne simili peni veramente disfunzionali. È un classico patriarcale: se non sei contenta puoi partire. Ma dove? E come? 

Il caso di Keira Bell è forse il più famoso al mondo e ha durevolmente cambiato il dibattito transgender nel Regno Unito. Un cocktail depressivo adolescenziale combinato ad un’attrazione per le donne la portano a richiedere a quindici anni un cambiamento di sesso  alla clinica Tavistock e Portman di Londra, al reparto di Gender Identity Development Service [Servizio di sviluppo di identità di genere] del servizio di salute pubblica NHS. Nel 2020, riesce a fare causa contro la clinica stipolando che avrebbero condotto sperimenti medicali su di lei, che l’hanno lasciata infertile, incapace di allattare e con genitali atrofizzati, per non parlare delle conseguenze psicologiche. Grazie a lei la clinica ha bloccato l’amministrazione di ormoni e i “trattamenti” bloccanti di pubertà per le e i pazienti sotto i 16 anni. 

Keira Bell nel 2021. Fonte immagine

L’invenzione della “disforia di genere”, sindrome del quale sarebbe stata afflitta all’epoca Keira Bell ricorda l’”isteria”, altra “malattia” che non era altro che la manifestazione del disagio femminile in un mondo profondamente ingiusto, ovvero una reazione sana in un mondo malato. In Italia, possiamo anche ricordare il tarantismo. Se le donne ieri erano sottoposto a “massaggi uterini” (stupri), oggi le ragazze che manifestano forti insoddisfazioni alla loro condizione femminile sono mandate a cliniche di identità di genere che non sono altro che cliniche degli stereotipi sessuali che curano con la malattia. Cure immaginare per malattie immaginarie lasciano vivere gli stereotipi. 

Scambio di sesso

Un’altra importante tendenza contemporanea è dunque la seguente: gli stereotipi restano, i sessi cambiano. Per dare senso a questo aspetto, potremmo pensare agli stereotipi come a dei recinti rigidi (ricordate le lastre di metallo) in cui le persone possono entrare e uscire a piacimento, purché non si oppongano all’esistenza stessa delle lastre.

Anche gli uomini sono invitati a adottare stereotipi associati al sesso opposto e pure a modificarsi fisicamente per renderli più credibili. Ecco un esempio: la modella Chella Man (in blu) è una donna e l’attore MJ Rodriguez (in giallo) è un uomo, ma ci è richiesto di pensare il contrario. Perché? Semplicemente per i loro vestiti, i manierismi, le loro acconciature – stereotipi.

Un altro esempio. Nel clip “Confetti” della girl-band inglese Little Mix le cantanti sono travestite da “uomini”. Come lo capiamo? Dagli stereotipi. Si affidano interamente ad essi per il loro costume. Da donne, sono ridotte ad oggetti sessuali. Da uomini, riducono le donne in oggetti sessuali. Da donne sono spogliate, per terra. Da uomini sono vestiti, in piedi.  

Clip “Confetti” di Little Mix

Nei casi come quello di MJ Rodriguez, si tratta di un capovolgimento poiché la finzione e la realtà vengono invertite. La costruzione sociale e la realtà biologica vengono confuse. Si conferisce alla costruzione sociale, e particolarmente ai simboli che hanno senso solo attraverso lo sguardo e che richiedono perciò una certa intellegibilità culturale, un carattere obbiettivo. Alla realtà biologica immutabile del sesso invece, cioè all’insieme della caratteristiche che permettono di distinguere la specie animale mammifera di nome “umana”/”umano” fra maschio e femmina, viene assegnato un carattere interamente soggettivo. 

Guardiamo adesso attentamente quest’immagine:

Eurovisione 2019, uno dei programmi TV più popolari al mondo. Sono presenti tutte le grandi star dello show. Ci viene detto che la nostra libertà in quanto donne, e come società, risiede nella capacità dell’uomo all’estrema sinistra di vestirsi come la donna in rosa a destra e dell’uomo all’estrema destra di prendere in giro la donna in rosa. Ma guardate chi c’è in mezzo? Assomiglia proprio allo status quo.

“Lo spettro del genere”

Lo “spettro del genere” è uno strumento usato per pretendere che il sesso sia uno spettro (immagino?). Dal mio punto di vista è uno strumento per capire quanto una persona si adegua agli stereotipi sessuati. Il testo dice “Dov’è mai nello spettro la tua identità di genere potrebbe situarsi?” e lo spettro va da Barbie a GI Joe. [Fonte immagine]. 

Gucci guerrieri della libertà 

Da queste due tendenze, il discorso queer o transgender deduce due affermazioni: gli stereotipi sono inseparabili dal sesso e giocare con gli stereotipi è liberatorio.

La più famosa articolazione della prima affermazione è quella della teorica queer Judith Butler, che in Corpi che contano (1993) afferma che il genere fa il sesso. Butler non nega l’esistenza materiale degli esseri umani; piuttosto, sostiene che il sesso è rilevante solo nella misura in cui è rilevante la discussione su di esso: meno se ne parla, meno conta e viceversa. La migliore illustrazione di questa idea, come giustamente sottolinea Mari Mikkola nel suo articolo sul dibattito accademico su sesso e genere, è il concetto di “assegnazione del sesso alla nascita”. Per Judith Butler, i ginecologi non si limitano ad annunciare e descrivere il sesso di un neonato, ma lo prescrivono.

L’idea che il sesso venga assegnato a esseri umani che sarebbero naturalmente asessuati è stato un colpo di genio nell’implacabile mimetismo del patriarcato. Se possiamo assegnare il sesso agli esseri umani, perché non assegnarlo anche agli oggetti? Oggi è molto più facile parlare di “vestiti da donna” o “borse da uomo” che di donne e uomini: gli oggetti, che sono esterni a noi, i veri involucri, e non i nostri corpi, che siamo noi, sono diventati gli unici marcatori del sesso.

Come ha osservato l’attivista femminista Anna Zobnina, si tratta del ritorno in vigore dell’individuo “neutro”, dotato di parti staccabili: una vagina per la prostituzione, un utero per le madri surrogate, un pene se si vuole fare l’uomo, un seno se si vuole essere donna. È come Mr Potato in Toy Story, un giocattolo a cui si possono togliere braccia/gambe/occhi e cappello a piacimento.

“Io sono un gatto”!

Nel cartone animato La gabbianella e il gatto (1998) adattato dal romanzo di Luis Sepùlveda, film culto per tutta una generazione (la mia almeno), il personaggio principale, una gabbianella adottata da gatti è convinta di essere un gatto. Ripete “io sono un gatto” come certi uomini ripetono “sono una donna” come un mantra. (Fonte immagine).

Nel suo saggio Modernità liquida del 2000, il sociologo Zygmunt Bauman prevede tutto ciò che sta accadendo oggi (ovviamente in termini rigorosamente sessualmente neutri, se no avrebbero preso le sembianze di un saggio femminista riservato ad un pubblico strettamente isterico e iperbolico aka femminile):

“L’identità sperimentata e vissuta poteva essere mantenuta solo con il collante della fantasia, o addirittura del sogno a occhi aperti. Ma di fronte alla tenace evidenza dell’esperienza biografica, qualsiasi collante più potente – una sostanza con un potere di fissaggio maggiore della fantasia, che è facile da dissolvere e cancellare – diventa una prospettiva tanto ripugnante quanto l’assenza di sogni da svegli. È proprio per questo che la moda, come ha sottolineato Efrat Tseëlon, svolge così bene il suo compito: quanto basta, né più né meno della fantasia. Fornisce “un mezzo per esplorare i limiti senza impegnarsi realmente o assumerne le conseguenze”. “Nelle fiabe”, ricorda Tseëlon, “l’abito da sogno è la chiave per rivelare la vera identità della principessa, come sa bene la fata madrina quando veste Cenerentola per il ballo”. 

Di fronte all’ostinata evidenza delle loro erezioni mattutine e delle loro eiaculazioni notturne, gli uomini hanno dovuto aggrapparsi ai “vestiti da donna” per mettere in atto la loro fantasia di diventare, anche solo per una notte, il cliché di una donna nata dalla partenogenesi della loro stessa mente, senza mai dover affrontare le conseguenze quotidiane.

Non sorprende quindi che la “rivoluzione di genere” sia guidata dall’industria della moda, uno dei principali fornitori di stereotipi sessuali e un perfetto esempio di come uomini eterosessuali e omosessuali collaborino per creare la donna prêt-à-porter dei loro sogni. Con “trans”, la trinità è completa. Gli accessori superficiali sono essenziali per rivelare il “sé interiore”, come dice Bauman: non si comprano solo oggetti, ma un’identità (di genere). Si possono acquistare abiti “gender affirming“(di affermazione del genere) non per vestirsi da, ma per diventare un uomo, una donna o qualcos’altro; non più travestirsi ma trasformarsi. “Ti piacciono i miei capelli? Grazie, li ho appena comprati”, canta la popstar Ariana Grande. “Avevo anche comprato da poco una nuova vagina”, scrive l’autore Andrea Long-Chu in Females [Femmine] (2019). Non è il sesso che vende, sono gli uomini che comprano il sesso femminile. Avevano la prostituzione, ora hanno le chirurgie.

Cattura schermo di un negozio canadese di “espressione e affermazione del genere” [Fonte immagine].

Zygmunt Bauman prosegue la sua riflessione citando il sociologo Harvie Ferguson:

“Nell’era postmoderna, tutte le distinzioni diventano fluide, i confini si dissolvono e ogni cosa può benissimo apparire come il suo opposto; l’ironia diventa il senso perpetuo che le cose potrebbero essere un po’ diverse, ma mai o fondamentalmente radicalmente diverse […] l'”età dell’ironia” è stata superata dall'”età del glamour”, in cui l’apparenza è sancita come unica realtà…”

Non sono più i poveri e invisibili cromosomi interni, né tantomeno i tristi e incompleti cromosomi XY, a determinare il sesso: è il trucco. L’immagine di una donna è tutto ciò che c’è da sapere su di lei: è superficiale, non c’è nulla al di là dell’apparenza, nulla di sostanziale – anzi, no, l’apparenza è sostanza, ennesima inversione. Basta apparire.

Se tutto ciò vi sembra troppo astratto o inverosimile, leggete questo: in una recente causa contro Miss USA, per essere ammesso all’arcaico concorso di bellezza femminile, un uomo di nome Anita Noelle Green ha sostenuto “sono una donna biologica perché sono stereotipicamente femminile“. Nel pensiero butleriano, quindi, la vista è importante quanto la parola nel determinare il sesso. 

Trova le differenze! (bis)
Sopra, un’immagine del clip “WAP” [Figa strabagnata] di Cardi B.
Sotto, un’immagine degli uomini del RuPaul Drag Race, concorso di drag queen statunitense adattato nel mondo.

Miraggi

È l’affermazione libertaria che è davvero preoccupante. Non importa che ora ci vogliano soldi per essere una donna, che la distinzione tra sesso e stereotipi che ha permesso alle femministe di smontare il mito di un’oscura fatalità biologica venga di nuovo cancellata, che la sessuazione degli oggetti faccia eco all’oggettivazione delle donne: l’immagine è la libertà. 

Ma la libertà qui proclamata è fragile e illusoria quanto l’apparenza.

Già è la libertà dell’individuo, come ce lo ha insegnato la filosofa femminista Janice Raymond quasi quarant’anni fa in The Transsexual Empire [L’impero transessuale]. Quando gli uomini decidono di sfuggire dagli stereotipi che vengono loro attribuiti adottando un’identità femminile, compiono (ancora una volta) una scelta egoistica, abbandonando una lotta politica contro l’oppressione dei ruoli sessuati che potrebbe portare benefici a tutte.

Il fatto che lo scambio di stereotipi sia una soluzione individuale a breve termine per un problema duraturo è tanto più evidente se si considera che non tutti possono giocare a questo gioco. In Albania, le burrnesha, o “vergini giurate”, sono donne che adottano stereotipi maschili, spesso perché non hanno fratelli o perché vogliono acquisire certe libertà come uscire nei caffè. Come in una favola, possono farlo solo a una condizione: devono rispettare il mito femminile della verginità, perché la sessualità è proprio il luogo in cui la facciata della virilità crollerebbe; la realtà manderebbe in frantumi la fantasia.

Vergini giurate in Albania fotografate da Isla Badenoch. [Fonte immagine].

Inoltre, solo una minoranza di donne può diventare burrnesha. Se tutte le donne decidessero di usare questa scappatoia per vivere senza temere la violenza maschile, come potrebbero poi gli uomini distinguere le “vergini giurate” dal resto delle donne? L’eccezione garantisce la regola. Questa società è ancora profondamente patriarcale, al punto che le donne non possono essere libere in quanto donne e le famiglie non possono concepire una vita senza figli maschi. “Cerca di essere una donna su queste montagne“, dice la cugina della principale “vergine giurata” nell’eponimo libro di Elvira Dones – questa è la vera sfida.

Si potrebbe suggerire, come lo fa l’antropologa Ifi Amadiume nel suo libro Male Daughter, Female Husbands (1987) [Figlie maschio, mariti femmine], in cui studia una pratica simile di “figlie maschio” nelle comunità Igbo della Nigeria, che questo è un esempio positivo di non allineamento tra sesso e genere. È vero il contrario: esiste un’iper-corrispondenza tra sesso e genere. Un oggetto o un tratto è così strettamente associato a un sesso che adottarlo significa diventare di quel sesso. Questa è l’origine dell’assurda idea di “diventare” il proprio vero Sé, osservata anche da Bauman.

L’idea che cambiare gli stereotipi per capriccio possa essere una fonte di libertà ignora anche lo scopo degli stereotipi di sesso. In Beauty and Misogyny (2005) [Bellezza e Misoginia], la politologa Sheila Jeffreys dimostra come i rituali di bellezza siano pratiche culturali che rafforzano lo status subordinato delle donne: i tacchi alti rendono una donna vulnerabile, i capelli lunghi soddisfano i feticci maschili, il botox è una tossina. Affermando che gli uomini sono altrettanto liberi di adottare gli stereotipi femminili, adottiamo una visione egualitaria dell’oggettivazioneÈ letteralmente la parità di genere. Per troppo tempo ho pensato ingenuamente che si dicesse “parità di genere” perché la gente era troppo timida per usare la parola “sesso” in pubblico. In realtà, non è affatto così: “parità di genere” significa proprio parità tra gli stereotipi sessuali. Il fine ultimo dei filantropi e delle Nazioni Unite è quello di garantire a donne e uomini la stessa “libertà” di indossare i tacchi a spillo, in modo che continuino ad esistere incontrastati.

Ho citato i tacchi a spillo di proposito. Storicamente sono stati indossati dapprima dagli uomini, ma la loro forma, il loro significato e la loro funzione erano completamente diversi da quelli dei tacchi alti realizzati successivamente per le donne. In Persia, nel X secolo, i cavalieri li usavano per tenere le scarpe nelle staffe. Nell’Europa del XVII secolo, i tacchi alti sono diventati il simbolo dello status sociale degli uomini. Quando le donne iniziarono a indossarli, divennero scomodi. E fu a causa di questa nuova associazione con le donne che gli uomini smisero di indossarli. In un sistema patriarcale, il sesso è una variabile rilevanteun indumento indossato da un uomo non ha lo stesso significato se indossato da una donna. Gli uomini in abito sono potenti: papi, preti, imam, monaci. Le donne non lo sono: modelle, spose, principesse, ballerine. Non è l’abito la fonte del potere, ma il sesso.

Nel mondo degli stereotipi come unica realtà di sesso, un pene non è necessariamente maschile, un clitoride non è sempre femminile. Diventa così impossibile spiegare perché la stiratura del seno, pratica ancora viva in alcune regioni del Camerun in cui si usano pietre calde per appiattire i seni crescenti delle bambine, sia una forma specifica di violenza contro le bambine. Allo stesso modo, diventa impossibile distinguere la circoncisione dalle mutilazioni genitali perché l’unico modo per farlo è distinguere prima il sesso maschile da quello femminile.

Ancora una volta, nel caso siate tentati di liquidare tutto questo come le farneticazioni di una femminista paranoica, considerate quest’altro caso legale: nel 2020, attivisti pro-transgender si sono opposti a una proposta di legge per vietare le mutilazioni genitali e sessuali femminili nello Stato americano del Wyoming, sostenendo che avrebbe messo fuori legge la “chirurgia di riassegnazione del genere” per i bambini. Questo argomento deleterio ha appeal solo in un contesto in cui la scelta o il consenso di un individuo di-sessuato viene eretto come unico marcatore di potere, invece del sesso, femminile o maschile.

Trova le differenze ! (bis repetita placent — sì ma scociant)
Sopra, foto di una bambina che ha subito una stiratura dei seni.
Sotto: una ragazza in Inghilterra che presenta sul suo canale YouTube come bendarsi i seni.

In un tale contesto, diventa anche impossibile denunciare come misogino il travestimento degli uomini da donne. Eppure, è solo grazie al loro status superiore che gli uomini possono interpretare il “doppio io” degli stereotipi: un giorno l’uno, l’altro l’altro; così come un uomo ricco può interpretare il povero. Il fiume scorre solo a valle. Noi donne non possiamo vestirci da uomini per prenderli in giro: i drag king non fanno parte del paesaggio culturale. Essere un uomo è una cosa seria. Né possiamo essere drag queen: è la prova che sono le donne, non gli stereotipi, a essere prese in giro.

In Italia, possiamo ricordare il personaggio di Drusilla Foer inventato da Gianluca Gori. Anche se non si rivendica “trans”, l’alter ego dell’attore dimostra quanto un’immagine di donna creata da un uomo possa essere popolare quando noi donne siamo odiate. Al Festival di Sanremo del 2022, Gianluca Gori aveva eclissato le conduttrici. I suoi motti di spirito, il suo agio sul palcoscenico gli venivano proprio dal fatto di non essere una donna, ma un uomo socializzato con tutti i vantaggi del suo sesso. 

Gianluca Gori al Festival di Sanremo 2022. [Fonte immagine].

Il “millennio della donna creata dall’uomo”.

Mentre gli stereotipi prosperano, vengono trascurate domande cruciali. Se gli stereotipi definiscono il sesso, chi definisce gli stereotipi? Chi progetta, chi vende, chi disegna, chi scolpisce, chi raccoglie i frutti?

Pittori, scultori, scrittori creano gli stereotipi. Insistere sulla costruzione sociale e non maschile degli stereotipi di sesso è una distrazione. Donne e uomini non partecipano nello stesso modo nella perpetuazione degli stereotipi e non ne beneficiano allo stesso modo. 

Chirurghi, stilisti, registi: gli uomini tagliano, scolpiscono e deformano le donne per farci rientrare nell’angusto stampo degli stereotipi. Quando si avanza che il sesso stesso è una costruzione sociale, cioè come detto, data la realtà economica e culturale inevitabilmente una costruzione maschile, noi donne siamo condannate ad essere definite dallo sguardo maschile. 

Naomi Wolf ha scritto a proposito della chirurgia: “Se non iniziamo a parlarne seriamente, arriverà il millennio della donna fatta dall’uomo e non avremo scampo“.  E spostare pedine su una scacchiera non cambierà le regole del gioco. 

Noi donne siamo stanche di giocare. 


Quest’articolo è una mia traduzione adattata ad un pubblico italiano. L’originale in inglese è pubblicato su 4W.

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